IL GIORNALISTA FABRIZIO GATTI RACCONTA QUELLO CHE HA VISTO NELLE STRUTTURE IN CUI VIVONO GLI IRREGOLARI
di Beatrice Borromeo
Fabrizio Gatti, giornalista d’inchiesta de L’espresso che per due volte si è finto clandestino per raccontare la vita nei “centri di detenzione” per immigrati, non si stupisce affatto quando legge della rivolta di Cagliari. E spiega: “Non mi meraviglia che gli immigrati, trattati come animali, col cielo oscurato da reti di metallo per impedire la fuga, possano perdere la calma e decidere o di uccidersi oppure di scappare e bloccare per protesta la pista di un aeroporto”.
È l’unico modo per far sapere quello che succede dentro i centri?
Sì e questo è drammatico. Ci sono centri in cui non distribuiscono più le schede telefoniche perché c’era chi le usava per tagliarsi le vene.
Nel 2000 lei si è finto romeno ed è stato nel Centro per immigrati di Milano. Dopo il suo articolo l’hanno chiuso.
C’era un recinto d’acciaio, filo spinato e stavamo in container di ferro. Feci per il Corriere della Sera unreportage sulle condizioni igieniche, l’ammassamento e la promiscuità fra ragazzi e ragazze. Ci furono anche violenze sessuali e un’epidemia di scabbia.
Poi, nel 2005, si è fatta catturare nel mare di Lampedusa.
Sono stato in quel centro otto giorni. La capienza massima era di 190 persone, invece eravamo 1200. I gabinettinon avevano lo scarico e per andare in bagno si dovevano mettere i piedi in una melma di urina e feci.
Quali sono le cose più gravi che ha visto?
L’assoluto isolamento delle persone rinchiuse e la violazione totale delle garanzie costituzionali, come l’udienza con un magistrato entro le 48 ore, oltre alla possibilità di chiedere l’asilo politico.
E le autorità che fanno?
Una volta i carabinieri hanno fatto il gioco militare del ‘corridoio’: gli immigrati appena sbarcati, i più deboli, venivano fatti passare in mezzo a due file di militari addetti alla loro perquisizione e presi a schiaffi sulla testa. Ho visto che urlavano a qualcuno di sedersi, in italiano o in inglese.E chi non capiva l’ordine veniva picchiato. Un ragazzo è stato preso a calci.
Cos’altro facevano i carabinieri?
Avvicinavano i minorenni, che in teoria là dentro non avrebbero proprio dovuto esserci e li obbligavano a vedere immagini pornografiche sui loro telefonini.
I centri sono anche molto costosi.
C’è un dossier di Medici senza frontiere secondo cui solo il 40 per cento dei detenuti nei centri viene effettivamente rimpatriata. Con i tagli di quest’anno i rimpatri, a carico dello Stato, verranno ridotti ancora. E i nostri potenziali richiedenti asilo, soprattutto eritrei e somali, sono incarcerati in Libia grazie ai nostri accordi con Gheddafi.
Ma i centri sono utili a mantenere l’ordine, almeno?
Sono una grande messa in scena, più utile a rassicurare gli italiani che a garantire la sicurezza o a scoprire l’identità, le intenzioni o i diritti di rifugio di chi sbarca.
Gli sbarchi però sono diminuiti.
Da 176 mila respingimenti del 2008 si è passati a 106 mila del 2009 e questo è un indicatore importante per capire che entrano meno persone. Ma è dovuto soprattutto alla crisi economica.
Nel 2005, quando lei fu “ospite” del Cie di Milano, il periodo massimo di detenzione era molto inferiore rispetto a oggi.
Si stava dagli otto giorni alle due settimane. Il limite massimo previsto dalla legge Turco-Napolitano era di 30 giorni. Poi gli immigrati venivano smistati in altri centri o rimandati in Libia, anche se la loro identificazione era sommaria.
Oggi possono detenerli fino a sei mesi.
E per di più nulla impedisce che, una volta liberati, possano essere fermati e trattenuti di nuovo. In teoria, un irregolare che esce dal centro dopo i sei mesi potrebbe attraversare la strada ed essere fermato nuovamente. E quindi, potenzialmente, la permanenza nel centro può diventare un ergastolo.
Lei è stato a Lampedusa otto giorni. Riesce a immaginare sei mesi lì dentro?
No. E da quando sono usciti dal Parlamento i piccoli partiti, come Rifondazione e i Verdi, che più si occupavano di immigrazione, nessuno visita i centri. Noi giornalisti, se vogliamo vederne uno, dobbiamo chiederlo con un preavviso di almeno un mese, rendendo impossibile un vero controllo della situazione. Il senso di abbandono per chi vi è recluso è ancora più forte che allora. La rivolta di Cagliari lo dimostra.