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CONNECTING LAGER

Da CARTA 22.10.2009

Sono tredici, i centri di identificazione ed espulsione in Italia, e
hanno una capienza di 1.806 posti "soggetta a variazioni in relazione
ad eventuali lavori di manutenzione", precisa pignolo il ministero
dell’interno.
250 di questi posti sono gestiti dal Consorzio Connecting people
[proprio come lo slogan pubblicitario di Nokia], che potrebbe presto
aumentare la sua quota di "mercato". Dietro la retorica antirazzista
sferraglia infatti una macchina da guerra: una cordata di 69
cooperative, creata ad arte per vincere appalti. Per ora i Cie del
Consorzio sono due: quello di Gradisca d’Isonzo e quello di Trapani, il
Serraino Vulpitta. Ai quali vanno aggiunte altre venti strutture di
"accoglienza" tra Centri di accoglienza e Centri di accoglienza per
richiedenti asilo [Cara].


Il presidente del Consorzio è Giuseppe Scozzari, ex parlamentare
dell’Ulivo proveniente dalla Margherita. Connecting people [Cp] è
vicina a Federsolidarietà, attraverso il gruppo di cooperative Cgm, uno
dei più grandi consorzi italiani, e nel 2010 dovrebbe diventare una
società del gruppo, aderente a Confcooperative. Il consorzio appartiene
alla "cooperazione bianca". Per la Confcooperative, la cui "azione si
ricollega ai principi ed alla tradizione della dottrina sociale della
Chiesa", questa è un’attività imprenditoriale come altre. Cgm, dal
canto suo, non ha mai nascosto
di voler trasformare l’opportunità Cie in un business.
E per questo usano Cp, creato nel 2005, come una testa d’ariete per entrare nel ristretto mondo dei Cie.
"Il Consorzio – spiega Stefano Granata, consigliere delegato del gruppo
cooperativo Cgm – è nato con l’idea di connettere risposte ai bisogni
delle politiche migratorie, che i nostri consorzi sperimentavano fino
ad allora in maniera frammentaria". Ovviamente, tiene a precisare
Granata, c’è anche un’attenzione particolare "all’inserimento
lavorativo, all’housing sociale", benché lui stesso riconosca che "poco
coinvolge i migranti rinchiusi nei Cie. Cerchiamo di seguire modalità
diverse. Proprio come nelle carceri, dove il sistema Cgm è quello più
efficace".
Sul sito della rivista Don Orione, Giuseppe Scozzari spiegava così, la
scorsa primavera, Connecting people: "Un Consorzio senza scopo di lucro
nato nel maggio del 2005 dalla volontà di alcune organizzazioni e
cooperative facenti parte della rete Cgm-Welfare Italia, che hanno
creduto e investito nel settore dell’immigrazione e della cooperazione".
Detto in parole povere, Cp si è specializzata nella gestione dei campi
di detenzione per migranti. E, come si evince dalle parole del suo
presidente, il gruppo è un "investimento ", uno "strumento" per mietere
appalti di gestione, dei Cie e non solo. Ecco perché partecipa sempre
più spesso alle gare d’appalto. Per ora il consorzio è particolarmente
presente nei Cara, dove gestisce bene un migliaio di posti sparpagliati
sul territorio.
Quanto alla presenza nei Cie, Giuseppe Scozzari non ne parla
volentieri. "Il consorzio gestisce solo 200 posti in tutto, 40 a
Trapani e 210 a Gradisca, dove però non si superano mai le 160
presenze. In questo momento Cp è presente in due gare d’appalto, per la
gestione del Cie di Roma e a Foggia. Nei due casi abbiamo ottenuto il
più alto punteggio ma non c’è stato ancora l’aggiudicazione finale. Sui
costi complessivi, battiamo i secondi di almeno 800 mila euro [in meno,
ndr]". Scozzari però "non ricorda" esattamente l’ammontare complessivo
della proposta. E, insiste, "oltre al profilo economico, la parte
sociale è importante".
A gennaio, Cp ha tentato di spodestare la Croce rossa dal Cie di corso
Brunelleschi a Torino, senza successo. Ci sta riprovando a Roma. Ponte
Galeria, dalla sua apertura nel 1998, è sempre stato gestito dalla
Croce rossa, ma a fine ottobre scadrà l’ultima proroga dell’appalto e
la Cri è stata esclusa dalla gara. Dal 2006 al 2008 la Cri ha incassato
oltre otto milioni di euro. "Uno spazio in cui si è abusato di troppo
ferro e troppe sbarre, sembra quasi un circo – ha detto di recente il
prefetto Morcone, capo dipartimento per l’immigrazione al Viminale, a
Liberazione – La gara d’appalto per la nuova gestione è scaduta e
dobbiamo ripensare il centro stando più attenti alla qualità dei
servizi".
Tra i concorrenti, riecco Connecting people, favorita per diversi
motivi. "I competitori ben organizzati sono pochi, anche perché non ci
sono molte cooperative sociali che hanno voglia di fare quel mestiere.
Prima i Cpt erano gestiti dalla Croce rossa o dalla Misericordia, cioè
da organizzazioni  nazionali piuttosto deboli dal punto di vista
imprenditoriale", spiega Sergio D’Angelo, presidente di Gesco Campania.
"Per la Croce rossa gestire i Cie è troppo oneroso a livello economico
e di immagine, perché si stanno trasformando in vere e proprie carceri;
Connecting people ha sperimentato le situazioni più estreme, a
Lampedusa o a Gradisca d’Isonzo – aggiunge Stefano Galieni,
responsabile immigrazione del Prc – E per poter aver un guadagno alto,
devi offrire un prezzo basso. Nella passata gestione c’era una varietà
di offerta micidiale, per cui il centro di Modena gestito dal fratello
di Giovanardi costava 82 euro a recluso e quello di Lamezia 30.
Il governo Amato ha imposto un abbassamento dei costi. Risultato: le Misericordie di Giovanardi hanno ceduto Modena".
Si è quindi avuta una vera e propria mutazione: per aggiudicarsi un
appalto bisogna avere capacità di anticipazione finanziaria ed essere
in grado di offrire un servizio che copra ogni necessità, dalla
gestione della lavanderia alla ristorazione e alla cura. E a questo
punto la gestione seriale dei centri rappresenta un vantaggio notevole,
perché permette l’abbattimento dei costi. Grazie a Cgm, Connecting
people può contare su diversi istituti bancari, da Intesa San Paolo al
circuito delle Banche di credito cooperativo, cosicché perfino il
ritardo cronico dei pagamenti pubblici non diventa un problema.
E tutti si sentono più "connessi"".

Centri costosi, inefficaci e illeciti
ERA IL LONTANO 1998, quando vennero creati i Centri di permanenza
temporanea, inventati dalla legge Turco-Napolitano. Per la prima volta
si introduceva la detenzione per un illecito amministrativo come il
mancato possesso di documenti d’identità. Allora la detenzione durava
venti giorni. Oggi i Cpt si chiamano Centri di identificazione ed
espulsione [Cie], la detenzione va fino a sei mesi e la "clandestinità
" è diventata un reato. I tredici Cie "si propongono – si legge sul
sito del ministero dell’interno – di evitare la dispersione degli
immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale
esecuzione dei provvedimenti di espulsione". Nel 2006 venne istituita
dal ministro dell’interno Giuliano Amato la Commissione De Mistura,
incaricata di fare un bilancio sui Cpt: si concluse che il sistema di
trattenimento "non consente una gestione efficace dell’immigrazione
irregolare, comporta disagi alle forze dell’ordine, nonché disagi e
frustrazioni alle persone trattenute, comporta costi elevatissimi con
risultati non commisurati". Costi allora stimati a 120 milioni di euro,
stanziati per mettere in piedi il sistema dei Cpt, ai quali vanno
aggiunti 6 milioni circa per la costruzione di un nuovo centro e 18
milioni l’anno per la loro gestione. Nel 2006, circa 22 mila stranieri
irregolari sono stati rinchiusi nei Cpt, e circa seimila sono stati
espulsi. Già allora la Commissione riteneva che fosse necessario "un
‘superamento’ dei Cpt attraverso un processo di svuotamento graduale
dei centri". Le proposte della Commissione sono state ignorate e i
costi sono lievitati. "Si è scelto l’inasprimento invece del
superamento – dice Gianfranco Schiavone, del direttivo nazionale
dell’Asgi, che fece parte della Commissione – L’allungamento dei tempi
di detenzione ha irreversibilmente mutato il già discutibile
trattenimento amministrativo come misura strettamente limitata nel
tempo e finalizzata all’allontanamento. Ora siamo di fronte
all’esecuzione di una condanna penale, senza la condanna né le garanzie
e le procedure del sistema penale. Se si guarda a quello che è successo
dal ‘98 ad oggi, è difficile non dar ragione a chi vide in questo avvio
il rischio di una gravissima involuzione ".

Lo scandalo di Ponte Galeria
QUI È PEGGIO DEL CARCERE. È come un tunnel senza fine, sai quando entri
ma non sai quando esci": è quel che  dicono a tutti quelli con cui
riescono a parlare i migranti detenuti nel Centro di identificazione e
di espulsione  di Ponte Galeria, nella periferia romana. E a vedere le
alte grate dietro le quali sono rinchiusi, la gabbia  all’aperto dove
le ore non passano mai e le ferite sui loro corpi, non è difficile
credergli.  A fine ottobre scade l’appalto per la gestione del Cie,
finora affidata alla Croce rossa. In lizza per ottenere l’affare ci
sono  diversi consorzi di cooperative, tra cui anche il famigerato
Connecting people, che sembra il favorito. Forse in vista degli 
imminenti cambiamenti, lo scorso 10 ottobre, perfino il prefetto di
Roma, Giuseppe Pecoraro, ha inviato al ministro dell’interno Roberto
Maroni una relazione per informarlo  della gravità della situazione.
"Il Centro di identificazione  e di espulsione di Ponte Galeria è al
collasso. Deve essere  chiuso", ha scritto Pecoraro. Secondo il
prefetto le alternative  sono due: o il Cie "viene ristrutturato o
chiuso e  spostato altrove". Qualche giorno prima, una delegazione  di
consiglieri regionali della sinistra aveva visto direttamente  quel che
il prefetto ha poi ammesso.  I numeri cambiano spesso, ma a Ponte
Galeria sono mediamente  rinchiusi circa 125 uomini e oltre cento
donne.  Tutti fanno un uso massiccio di psicofarmaci. Rivoltrin e 
benzodiazepine fanno ormai parte del kit di sopravviven-za che la Croce
rossa fornisce ai suoi "assistiti", insieme a  due pacchetti di
sigarette la settimana e alle ricariche telefoniche.  Del resto,
l’unica psicologa che lavora nel centro  riesce a malapena a vedere
ciascun detenuto una volta. La  situazione sanitaria è allarmante: ci
sono persone sieropositive,  malate di broncopolmonite, c’è chi ha
spalle lussate,  misteriosi bubboni sul corpo, segni di
autolesionismo.  Per stessa ammissione della Croce rossa, chi sta male
dovrebbe  essere trasferito altrove, ma non succede mai.  "In alcune
stanze le docce sono troppo calde, non le possiamo  utilizzare. In
mensa mangiamo sempre la stessa cosa,  pasta a pranzo e a cena, a volte
riso. Il cibo fa schifo", ha  raccontato a Carta uno dei detenuti.
Preferisce non si faccia  il suo nome, ha paura di essere trasferito
nel Cie di un’altra  città: spesso significa niente più visite, né
pacchi.  Una situazione cronica, come ricorda Gianfranco Schiavone, 
del direttivo nazionale dell’Asgi [Associazione studi  giuridici
sull’immigrazione] che fece parte della Commissione  De Mistura: "La
Commissione non fece dei rapporti  pubblici luogo per luogo per non
scatenare polemiche su  singoli centri. Segnalavamo i centri più
problematici in via  riservata al ministero. Il Cie di Ponte Galeria
non era forse  il peggiore, ma poco ci mancava: sia per lo stato della 
struttura, sia per la gestione. Un insieme di fattori che rendevano  il
luogo particolarmente degradato. Già nel 2006 era difficile trovare un
centro dove quello che doveva essere dato  veniva effettivamente dato,
in termini di cibo, di consumi,  di spazi fruibili, di attività di
animazione. Se si gioca a  ribasso con gli appalti, questi luoghi
diventano sempre  più gironi infernali".  Anni dopo, la situazione non
è cambiata. A giugno, i rinchiusi  dentro il Cie di Ponte Galeria non
hanno ricevuto per  venti giorni né ricariche dei telefoni né
sigarette.  La struttura è divisa tra il settore femminile – l’ala
destra  – e quello maschile – l’ala sinistra. Al centro, l’edificio 
della Croce rossa. L’infermeria è aperta a uomini e donne  in orari
alterni. Come lamentano i detenuti, nonostante il  centro sia gestito
dalla Croce rossa, l’accesso alle  cure è piuttosto complicato. Nel
settore femminile  c’è anche una biblioteca, però senza orari  fissi di
apertura: dipendono dalla disponibilità  dei volontari della Croce
rossa. C’è anche una  parrucchiera, di fianco alla mensa. Per gli
uomini  invece, farsi la barba è difficile. Altro non c’è.  Ai detenuti
non viene concesso di svolgere né  attività lavorativa né sportiva né
altro. La giornata  è scandita dai pasti e da eventuali convocazioni 
all’ufficio immigrazione del centro.  Vengono distribuiti alcuni
indumenti: ciabatte,  magliette e pantaloni. I familiari che riescono
ad ottenere  una visita possono portare altre cose. I colloqui si
svolgono  in una stanza all’ingresso dell’edificio della Croce rossa, 
ad orari fissi. "La mia fidanzata ha provato a venirmi a  trovare ma è
stata trattata malissimo: gli agenti le hanno  detto parolacce e non
hanno voluto sapere nulla. Niente colloquio,  non ha nemmeno potuto
lasciarmi un pacco con le  sigarette", racconta un detenuto.  Di quello
che accade nella parte femminile poco trapela,  non si hanno notizie di
tentativi di fuga o rivolte, né di  pestaggi o violenze. Francesca De
Masi fa parte della cooperativa  Bee Free, che gestisce uno sportello
di assistenza  sociale, legale e psicologica per le donne rinchiuse,
due ore  a settimana. "Il nostro ruolo – spiega Francesca – è favorire 
l’accesso delle detenute vittime di tratta all’articolo 18,  per
permettere loro di ottenere un permesso di soggiorno.  Spesso però
hanno subito ogni tipo di violenza, da  quella sessuale a lesioni e
percosse, in Libia. Qualcuna ha  il segno delle catene. In quei casi
non possiamo fare nulla:  lo sfruttamento non è accaduto in Italia, e
quindi queste  donne non hanno diritto all’articolo 18. Da quando sono
iniziati  i respingimenti, da Lampedusa non arrivano più ragazze:  il
governo italiano le rimette nelle mani di chi le ha  violentate,
torturate e ne ha annullato i diritti".

Due mesi di ribellioni   
RIVOLTE, INCENDI, FUGHE, scioperi  della fame e della sete, proteste  a
volte seguite da pestaggi e arresti:  tutto questo è accaduto con una 
frequenza impressionante a partire  dall’8 agosto, il giorno in cui è
entrato  in vigore il "pacchetto sicurezza", e  in particolare la legge
94/09, che ha  prolungato da due a sei mesi il limite  del
"trattenimento" nei Cie, applicata  in modo retroattivo anche a chi era
già  rinchiuso. Tentiamo qui di ricostruire  un elenco, sicuramente
incompleto,  dei tentativi di fuga [riusciti o meno] e  delle rivolte
nei Cie proprio dall’8 agosto:  la maggior parte delle notizie è 
tratta dal sito Fortress Europe [fortresseurope.  blogspot.com].  L’8
agosto, nel Cie di Milano, sciopero  della fame e della sete. Il 9, a
Gradisca,  un centinaio di detenuti salgono  sui tetti del Cie e altri
dieci tentano  la fuga, ma sono bloccati. Il 13 agosto,  a Torino, per
due giorni due sezioni del  Cie rifiutano il cibo e protestano, fino 
ad arrivare a uno scontro con gli  agenti di polizia il 14 agosto. Lo
stesso  giorno, a Milano, scontri tra la polizia  e migranti, che danno
fuoco a una  sezione del centro: alla fine ci saranno  14 arrestati,
rinviati a giudizio per  direttissima con l’accusa di resistenza  a
pubblico ufficiale, incendio, danneggiamenti.  A Ferragosto, a Torino,
una  ventina di migranti salgono sui tetti. Il  giorno dopo,
"battitura" di protesta al  Cie di Bari. Sempre a Bari, il 17 agosto 
vengono arrestate due persone per un  tentativo di fuga. Lo stesso
giorno a  Modena, dopo una giornata di sciopero  della fame, i detenuti
incendiano i  materassi: tre persone vengono denunciate  e rimpatriate.
Il 20 agosto  sette algerini fuggono da una finestra  dal Cie di
Gradisca, altri due sono bloccati  dalla polizia.  Il 24 agosto un
"trattenuto" scappa  dopo essere stato ricoverato in  ospedale a Bari.
Il 26 un gruppo di migranti  è bloccato a Gradisca durante  di R. M. 
un tentativo di fuga dai tetti. Il 29 agosto  19 reclusi scappano dal
Cie di Brindisi.  Il 2 settembre sciopero della fame  al Cie di Ponte
Galeria. Il 4 un tentativo  di fuga è bloccato nel Cie di Bari. L’8 
settembre, a Lamezia Terme, la polizia  in forze spara lacrimogeni
davanti al  Cie, dopo che sei detenuti sono riusciti  a fuggire. Il 14
settembre a Milano  fallisce il tentativo di fuga di una ventina  di
reclusi. Stessa sorte il giorno  dopo a Lamezia Terme, dove un gruppo 
di migranti aveva scavato un buco  nel muro. Il 20 settembre a
Gradisca  una fuga fallisce nella notte. Il giorno  dopo la polizia in
tenuta antisommossa  entra nelle camerate, 12 migranti finiscono 
all’ospedale.  Il 27 settembre 114 immigrati del  Cie di Ponte Galeria
iniziano uno  sciopero della fame che si conclude dopo  quattro giorni.
Il primo ottobre due  reclusi salgono sui tetti del Cie di Crotone 
minacciando di buttarsi, altri due  si arrampicano sulle reti
metalliche alte  quattro metri che circondano la  struttura: alcuni di
loro sono nel Cie  nonostante il loro datore di lavoro abbia  fatto
richiesta nell’ambito della sanatoria  per colf e badanti.

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